Sono arrivato in Maremma nel ’73 in una ventosa giornata di
ottobre con la mia 500 L ed un incarico a tempo indeterminato di chimica presso
l’Istituto Tecnico di Manciano. Avevo 24 anni e non sapevo nulla di Manciano,
quasi niente di Grosseto e poco della Toscana (a parte del pane sciapo, quel
poco rimasto dai miei studi liceali: Dante, Giotto, Piero della Francesca,
Brunelleschi, e poco altro …….). I primi mesi furono tragici: io venivo da una
grande città – meridionale, incasinata, cementificata ma una grande città – e a
Manciano gli unici passatempi erano la caccia, la pesca e il bar: ma io non
andavo né a caccia né a pesca, e non avevo l’abitudine di frequentare il bar,
se non per il cappuccino e il caffè. Presto però individuai un interesse comune con le nuove conoscenze che via via intrattenevo: la cucina ed il mangiare. Peraltro, anche se professore, ero poco più che un ragazzo per cui venivo spesso invitato a mangiare dalle mamme dei miei nuovi amici, ma anche dei miei alunni, da cui mi separavano 5-6 anni. Quelle signore erano tutte casalinghe, massaie come la mia mamma, donne di casa per le quali inventare una cena per qualche ospite improvviso o tirare dieci uova di sfoglia in un momento non previsto non costituiva assolutamente una difficoltà; non curavano molto l’etichetta né io me ne curavo. Cominciai perciò a conoscere la cucina maremmana “dall’interno”, non in trattoria ma in famiglia: il cinghiale e i tortelli, i fegatelli e i crostini di milza, l’ammazzafegato e l’acquacotta, e le pappardelle ……. Ma il piatto che avvertivo avevano più piacere che io provassi erano i Ciaffagnoni: te lo proponevano con la stessa sobria soddisfazione con la quale si mostra ad una persona che non conosci ancora bene un angolo di casa misterioso o un cassetto di ricordi.
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Foto di N. Costa |
Era un piatto che non
esisteva fuori casa, neppure nella trattoria più casalinga, e che non trovavi fuori
Manciano; era una cosa loro, solo loro erano capaci di farlo e loro erano le
custodi del segreto di come prepararlo. I ciaffagnoni sono delle crespelle
molto sottili ottenute da una pastella di uova, acqua e farina: sembra
esistessero già prima del Quattrocento, nella zona di Manciano e di San
Casciano dei Bagni in Val d’Orcia.
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Manciano, acquerello di Renzo Cappelletti |
Leggenda vuole che Caterina de’ Medici,
oltre ad aver introdotto in Francia l’uso della forchetta e non soddisfatta
della cucina della corte, avesse importato dalla Toscana cuochi che
influenzarono la cultura gastronomica francese al punto che celebri ricette
pilastro di quella tradizione culinaria, come la besciamella, la soupe
d’oignons o l’anatra all’arancia sembra traggano origine da piatti toscani; i
francesi non copiarono pedissequamente ma riadattarono le originarie semplici
ricette leggendole con gli occhi della loro elaborata cultura gastronomica,
sostituendo l’acqua con il latte, lo strutto e il lardo con il burro, il vino
col cognac …… E’ allora immediato comprendere come l’aggiunta di burro e latte
nella ricetta dei ciaffagnoni porti alle rinomate crêpes (con risultati – a
dire il vero – superiori all’originale!). Ignare di Caterina e delle dispute
gastronomiche italo-francesi, quelle donne si armavano di padella di ferro, di
un pezzo di lardo per ungerla, la pastella era già lì a riposare da un pezzo e
via…. man mano che erano cotti, uno dopo l’altro venivano spolverizzati di
pecorino (o talvolta parmigiano) grattugiato, piegati in quattro a triangolo e
impilati a strati di quattro ciaffagnoni per strato e, quindi, consumati
servendosi rigorosamente delle mani.Immancabilmente la preparazione di
ciaffagnoni veniva accompagnata da un commento che si ripeteva come un mantra
tutte le volte, in tutte le case, qualunque fossero i partecipanti: “mi
raccomando, i ciaffagnoni devono essere fiiiini (e più si allungava la “i” più
i ciaffagnoni diventavano sottili!) altrimenti sono i migliacci, come li fanno
a Pitigliano”, con la voce che a quel punto virava dalla disapprovazione alla
commiserazione per quei loro vicini così stolti....... E lì capii un pezzo di
Toscana: i guelfi e i ghibellini, le contrade e il calcio in costume, i pisani
e i livornesi, …… i mancianesi e i pitiglianesi. Anni dopo nel repertorio dei
Prodotti Agroalimentari Tradizionali Toscani dell’ARSIA ho trovato che “La
migliaccia di Pitigliano è una crêpe con diametro di circa 20 cm e colore
giallo pallido. La sua principale e apprezzata caratteristica è la sottigliezza”
e allora ho capito che ciaffagnoni e migliacci (o migliacce) sono la stessa
cosa, ma questo non bisogna dirlo né ai mancianesi né ai pitiglianesi.
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Pitigliano, acquerello di Renzo Cappelletti
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Post pubblicato su Storie di Piatti e Territori (Vetrina Toscana)
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